Ci sono due fenomeni che fanno molto male al sistema italiano dell’agrifood: l’italian sounding e la contraffazione. La contraffazione “riguarda prevalentemente illeciti relativi alla violazione del marchio registrato, delle denominazioni di origine (DOP, IGP, ecc.), del logo, del design, del copyright, fino ad arrivare alla contraffazione del prodotto stesso” ed è legalmente impugnabile e sanzionabile; il fenomeno Italian sounding, invece, “fa riferimento all’imitazione di un prodotto/denominazione/marchio attraverso un richiamo alla presunta italianità che non trova fondamento nel prodotto stesso” e non è perseguibile. L’imitazione è più raffinata della contraffazione e nei paesi dove le denominazione di origine non sono riconosciute o non sono tutelate è difficile da combattere. In effetti, quando un prodotto è molto piazzato sul mercato è facilmente soggetto a imitazioni e contraffazioni e da anni l’Italia si trova in balia dell’Italian sounding, anche per i prodotti alimentari. Il cibo italiano, infatti, nel resto del mondo viene considerato decisamente cool. L’italian sounding è a tutti gli effetti un fenomeno grave, riconosciuto come tale dalle autorità, in grado di incentivare i consumi “tarocchi”. La Salsa pomarola viene venduta in argentina, la Zottarella è prodotta in Germania, gli Spagheroni si possono trovare sugli scaffali dei supermercati olandesi e, il Caccio cavalo in Brasile. Oppure in Cina l’acqua minerale viene venduta come un prodotto di lusso, così come il prosecco negli Stati Uniti. Troppo spesso, però, i brand che richiamano al Made in Italy, “sounds good” ma “tastes bad”, meno del 30% è realmente italiano, e tra questi non tutti sono effettivamente prodotti in Italia. Su quasi 5.000 prodotti alimentari censiti Made in Italy solo poche decine sono effettivamente reperibili nei mercati stranieri. Alla fine del 2018 i dati di Coldiretti dicono che è salito ad oltre 100 miliardi il valore del falso Made in Italy agroalimentare nel mondo con un aumento record del 70% nel corso dell’ultimo decennio per effetto della pirateria internazionale che utilizza impropriamente parole, colori, località, immagini, denominazioni e ricette che richiamano l’Italia. Il sistema italiano di qualità “Food and wine” conta su 822 specialità tutelate che sviluppano un valore alla produzione di 15,2 miliardi con un aumento del 2,6% su base annua. I brand italiani, inoltre, per vendere e comunicare, si affidano a partner che trovano in loco, con cui però manca una condivisione di conoscenza comune. Talvolta anche la comunicazione viene affidata al distributore, senza tenere in considerazione che gli obiettivi di quest’ultimo sono molto diversi rispetto a quelli di chi produce. In Cina, troppo spesso, i distributori locali decidono nomi, traduzioni e posizionamento dei prodotti, provocando, sempre più spesso, danni enormi alla brand equity dei nostri marchi. Di fronte a tutto questo, le eccellenze del food Made in Italy si trovano ad affrontare una sfida che può rappresentare un’enorme opportunità: riappropriarsi di ciò che è italiano per comunicarlo e raccontarlo nel giusto modo. A tutto questo si aggiunge un ulteriore triste fenomeno dato dalla sofisticazione del cibo da parte delle agromafie. Secondo i dati presentati nel sesto Rapporto di Coldiretti sul fenomeno il volume d’affari delle agromafie è salito a 24,5 miliardi di euro, con un balzo del 12,4% nel- l’ultimo anno. «Le agromafie – ha spiegato il presidente di Coldiretti, Ettore Prandini – sono diventate molto più complesse e raffinate. Non vanno più combattute solo a livello militare e di polizia, ma a tutti i livelli: dalla produzione alla distribuzione fino agli uffici dove transitano i capitali da ripulire, garantendo al tempo stesso la sicurezza della salute dei consumatori».